Le proteste contro le misure anti-Covid che nel febbraio scorso hanno scosso il Canada, susseguendosi ininterrottamente per circa un mese, hanno portato allo scoperto caratteri dispotici e tecnocratici che solitamente non si riconoscono propri delle “democrazie liberali”, nonché il lato più coercitivo delle tecnologie, della centralizzazione finanziaria, degli strumenti elettronici di pagamento e più in generale del mondo digitale: non trovando altri mezzi per sedare le proteste, che hanno visto i manifestanti e gli autotrasportatori bloccare la città di Ottawa e i valichi di frontiera con gli Stati Uniti, il governo di Justin Trudeau ha invocato la Legge sulle emergenze (Emergencies Act) e chiesto quindi alle banche di congelare i conti correnti dei manifestanti.
Il presidente canadese si è dunque spinto in un territorio inesplorato che usa il sistema finanziario come arma per punire tutti i presunti dissidenti, reprimendo brutalmente la libertà di manifestare dei cittadini e definendo una forma completamente nuova di potere che si è potuta affermare per mezzo delle nuove tecnologie.
Attraverso le transazioni finanziarie elettroniche e più in generale attraverso un’infrastruttura digitale pervasiva che prevede identità personali digitali e la riduzione dell’uso del contante, questa nuova forma di controllo e repressione sociale rischia di diventare sempre più diffusa, perché in ogni momento si può utilizzare uno stato di emergenza vero o presunto per metterla in atto. Tutto ciò dovrebbe indurre l’opinione pubblica a riflettere attentamente sulle conseguenze che la sfera digitale e le tecnologie dell’informazione hanno avuto e avranno sull’ambito economico, sociale e antropologico. Esse, infatti, hanno rimodellato completamente le abitudini e gli stili di vita occidentali, portando, da un lato, ad un’emergente forma di potere tecnocratico basata sulla tracciabilità digitale e, dall’altro, ad un nuovo tipo di capitalismo che si fonda sull’accumulo di dati e sull’esperienza umana come materia prima per alimentare il proprio guadagno. Shoshana Zuboff – scrittrice e docente alla Harvard Business School – ha definito questo nuovo capitalismo “capitalismo della sorveglianza”: un metodo totalmente innovativo per controllare e programmare l’“uomo nuovo” dell’era digitale, all’insegna degli interessi del mercato e del business.
Il capitalismo della sorveglianza
Secondo la Zuboff, il capitalismo della sorveglianza “è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione”. Esso è una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale, seppure non coincida totalmente con il “digitale”. Questo nuovo tipo di capitalismo si serve delle tecnologie dell’informazione per analizzare, indirizzare e formare i comportamenti degli utenti a fini commerciali. La materia prima di cui si serve a tal fine è l’esperienza umana che viene trasformata in dati grezzi: alcuni di questi dati sono usati per migliorare prodotti o servizi, mentre la parte restante diviene un surplus comportamentale privato sottoposto a un processo di lavorazione avanzato noto come “intelligenza artificiale” per essere trasformato in prodotti predittivi in grado di vaticinare cosa faremo immediatamente, tra poco e tra molto tempo. Questi “prodotti predittivi” vengono poi scambiati su un nuovo tipo di mercato chiamato “mercato dei comportamenti futuri”: conoscere in anticipo i comportamenti delle persone è fondamentale per quelle imprese che vogliono vendere loro un prodotto o un servizio. Ma il capitalismo della sorveglianza non si accontenta solo di conoscere e prevedere i comportamenti, ma è in grado di formarli, attraverso i cosiddetti “mezzi di modifica del comportamento”: questi ultimi, oltre ad indirizzare le scelte attraverso il marketing e la conoscenza dell’inconscio delle masse, si servono della più innovativa tecnologia dell’automazione e di “un’architettura computazionale sempre più presente, fatta di dispositivi, oggetti e spazi smart interconnessi”.
Come il capitalismo industriale doveva accrescere continuamente il possesso dei mezzi di produzione, così il nuovo tipo di capitalismo dei giganti del web deve accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti. Il nucleo intellettuale a cui attinge da un punto di vista teorico il nuovo potere che conosce e indirizza i comportamenti è quello del “comportamentismo”, il cui padre è considerato lo psicologo statunitense John Watson. Secondo Watson, il fine teoretico del comportamentismo “è la previsione e il controllo del comportamento. Le forme d’introspezione non sono parte dei suoi metodi. […] Il comportamentista non riconosce alcuna divisione tra l’uomo e il bruto”. In altre parole, il comportamentismo esclude completamente il sé o la sfera interiore dell’individuo per osservarne i meri comportamenti apparenti, considerati come risposta meccanica ad uno stimolo esterno.
In questo periodo, negli ambienti accademici cominciò ad affermarsi l’idea per cui le leggi del mondo fisico potessero essere applicate al comportamento umano, dischiudendone i segreti. In questo modo si pretese di conferire uno status scientifico allo studio del comportamento umano. A tal fine, lo psicologo statunitense di origine tedesca Max Meyer ebbe un ruolo determinante, avendo stabilito le basi epistemologiche e metodologiche del comportamentismo moderno, collocando la psicologia accanto a discipline quali la fisica, la chimica e la biologia. Questo ruolo gli fu riconosciuto anche da un altro “luminare” della psicologia americana novecentesca, Burrhus Skinner – considerato il più influente psicologo del XX secolo – che sviluppò il cosiddetto “comportamentismo radicale”, secondo cui ogni azione animale, ma anche umana, è determinata e non libera. In questo si era ispirato sicuramente alle teorie di Meyer, secondo il quale “la libertà d’azione nel mondo animale è identica a un caso fortuito nel mondo della fisica”. In questa “visione scientifica” dell’essere umano, quest’ultimo è ridotto a “cosa” o a mero “organismo tra gli organismi” e non vi è spazio, dunque, per le nozioni di “libertà” e “volontà”, in quanto esse non sono misurabili né tantomeno controllabili. Non a caso, un’opera di Skinner molto criticata si intitolava proprio “Oltre la libertà e la dignità” (1971). Il fine del comportamentismo è proprio il controllo e la prevedibilità delle azioni umane e non la libertà, motivo per cui costituisce il sostrato teorico del nuovo potere capitalistico che indirizza e plasma i comportamenti.
Pioniere del capitalismo della sorveglianza è il gigante del web Google che ha finanziato per primo la ricerca e sviluppo in questo settore, ponendosi all’avanguardia della sperimentazione e dell’implementazione di quel sistema che attraverso gli algoritmi e l’intelligenza artificiale raccoglie una miniera di dati da usare non solo a fini commerciali, ma anche per indirizzare i pensieri e i desideri degli utenti. Progressivamente, a Google si sono affiancati altri colossi della tecnologia dell’informazione quali Meta (Facebook), Microsoft, Amazon e Apple che, nell’insieme, costituiscono il gruppo noto come Big Tech o Big Five a cui si possono aggiungere anche Twitter e Netflix. In breve tempo, le multinazionali della Silicon Valley hanno acquisito un potere dirompente, tale da poter sovrastare la legislazione degli Stati.
Il potere delle Big Tech
Durante i primi anni 2000, i giganti tecnologici hanno superato quelli dell’energia come Gazprom, PetroChina e Royal Dutch Shell ai vertici dell’indice azionario NASDAQ. Allo stesso tempo, hanno anche superato le grandi società di media come Disney e Comcast: nel 2017, infatti, le Big Tech avevano una valutazione combinata di oltre 3,3 trilioni di dollari, andando a costituire più del 40% del valore del NASDAQ 100. Questo dominio finanziario gli ha concesso di esercitare un grande potere sulla sfera sia pubblica che privata e di aggirare le legislazioni statali, impotenti (o complici) di fronte al loro modo di operare profilando gli utenti e sfruttando l’esperienza e i comportamenti umani come risorse sulle quali fare enormi profitti, in una condizione di oligopolio che gli ha permesso di lanciare operazioni di mercato senza precedenti nelle zone inesplorate di internet.
Dietro questi colossi, tuttavia, non vi è solo un obiettivo di dominio economico-finanziario, ma si cela un’ideologia ben precisa che permea totalmente il “partito” della Silicon Valley: il progressismo tecno-scientifico. Da qui l’esigenza di silenziare tutti quei partiti politici, movimenti culturali e opinioni di singoli utenti che non la condividono, attraverso la censura e la rimozione degli account o dei siti web. Del resto, nel mondo digitale bloccare, sospendere o “punire” un utente è estremamente più semplice di quanto non sarebbe nel mondo fisico reale e questo evidenzia la natura potenzialmente “totalitaria” o coercitiva della sfera digitale, in cui basta un clic per sospendere l’accesso ai servizi, bloccare una carta di credito o, addirittura, silenziare il Presidente degli Stati Uniti d’America. È quanto accaduto a Donald Trump nel gennaio 2021 quando Twitter ha eliminato il suo account da più di ottanta milioni di follower in modo permanente, reprimendo completamente la libertà di espressione non solo dell’allora presidente americano, ma di un’intera nazione che in lui trovava la sua rappresentanza. Ciò significa che le Big Tech hanno preso completamente il sopravvento sulla sfera politica fagocitandola: al di fuori delle piattaforme digitali la politica scompare, poiché trova online la sua principale cassa di risonanza. In altri termini, l’esistenza digitale o online sta diventando sempre più determinante, a tal punto da scavalcare quella reale fisica, per cui attraverso un pulsante è possibile isolare o addirittura cancellare un un personaggio pubblico. Questa condizione si sta estendendo pericolosamente anche alla vita quotidiana e all’identità dei cittadini “comuni”: la spinta dei governi alla digitalizzazione di tutti i servizi e delle identità personali è, infatti, sempre più forte. Ad esercitare pressioni in questo senso sugli Stati di buona parte del mondo sono potenti organizzazioni internazionali ed extra governative come, ad esempio, il World Economic Forum (WEF) che, non a caso, è l’associazione di categoria delle grandi multinazionali in cui spicca la presenza dei giganti del web.
Digitale e tecnocrazie
L’era delle tecnocrazie, in cui vige il governo dei tecnici e di conseguenza la “religione” della tecnoscienza, pare aver trovato nel digitale il suo migliore “strumento di governo”: le tecnologie digitali, infatti, sono quelle che meglio si prestano a dare vita ad un controllo totale sugli individui, attraverso una tracciabilità pervasiva e ineludibile. La tecnoscienza, infatti – che pervade interamente la cultura moderna e contemporanea costituendone il pilastro – è improntata ai criteri della misurabilità, della sperimentazione, della prevedibilità e, in definitiva del controllo. Come dimostra perfettamente l’esempio del comportamentismo radicale, anche l’essere umano deve rientrare in questi canoni in cui non c’è spazio per “libertà” e “volontà”, ossia per il libero arbitrio. Si tratta, dunque, di estendere i canoni scientifici dai laboratori alla realtà quotidiana e alla natura umana, dando luogo ad una forma inedita di “totalitarismo” differente da tutti quelli precedenti: questo, infatti, non si basa (necessariamente) sulla coercizione e la violenza, ma – al contrario – sul potere mellifluo e impercepibile di controllo delle menti e dei comportamenti. Il potere tecnocratico plasma i “sudditi” attraverso l’ingegneria comportamentale e l’ingegneria del consenso, tanto che in molti casi sono loro stessi ad invocare con euforia una rete invisibile di controllo digitale, spinti dagli apparenti vantaggi della comodità, della sicurezza e dell’efficienza, oltreché dalle tendenze sociali che alimentano un conformismo livellante e ottundente.
Proprio in questo contesto, l’Italia punta ad essere uno dei Paesi europei più all’avanguardia, promuovendo alacremente lo sviluppo e l’utilizzo dell’identità e dei pagamenti digitali e istituendo a tale scopo anche un apposito ministero: il Ministero per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, presieduto da Vittorio Colao, un tecnico proveniente dalle fila del business e della gestione del settore delle telecomunicazioni. Incentivare i pagamenti e l’identità digitale significa centralizzare sempre di più il sistema finanziario, dei dati e delle informazioni, non lasciando nulla al di fuori della dimensione tecnologica che verrà ulteriormente rinforzata dalla rete 5G: in questo modo si spiana la strada ad un sistema in cui tutti i dati di una persona – dati biometrici, sanitari, finanziari, relativi agli acquisti e alle opinioni espresse sui social – sono archiviati e sempre disponibili in uno spazio virtuale, rendendo totale il monitoraggio sugli individui. Sarà, dunque, semplicissimo disattivare o sospendere l’identità digitale di quei cittadini che dissentono o che non si sottopongono, ad esempio, ad un trattamento sanitario obbligatorio o, ancora, che esprimono un’opinione considerata non adeguata agli standard delle “comunità social”, rendendogli impossibile accedere a qualunque servizio o fare qualsiasi acquisto, esattamente come accaduto ai manifestanti di Ottawa.
D’altronde, il concetto di tecnocrazia è antitetico a quello di democrazia, in quanto non comprende – esattamente come il comportamentismo – la nozione di libertà e quindi di libera scelta e autodeterminazione dei popoli. In questa dimensione, infatti, i sentimenti e l’interiorità umana sono ridotti a meri processi biochimici che – come ha sostenuto lo storico israeliano Yuval Noah Harari, fautore del transumanesimo – “si basano sul calcolo, non sull’ispirazione o sulla libertà”. Dietro lo sfavillante e patinato mondo tecnologico si cela, dunque, una realtà distopica che ingloba in sé una concezione antropologica meccanicista e scientista. Solo ripensando completamente l’umano e riconoscendogli caratteri qualitativi e spirituali e non meramente quantitativi e meccanici, sarà possibile, dunque, ridimensionare la “tirannia digitale”.
[di Giorgia Audiello per L’Indipendente.online]