L’ossessione per l’innovazione tecnologica e il mito della crescita fine a se stessa rappresentano oggi i pilastri di un nuovo paradigma che ha modellato il pensiero e i comportamenti della società contemporanea. L’innovazione è diventata il nuovo “imperativo categorico” dell’ambito aziendale, del business e dei capitali ed è quindi un concetto che pertiene esclusivamente alla sfera materiale, di consumo e di profitto. La concorrenza tra le aziende hi-tech e tra i colossi delle telecomunicazioni ha individuato nella costante innovazione un vantaggio competitivo da cui non si può prescindere, innescando un processo illimitato di “sviluppo”, che non tiene conto delle reali esigenze dell’uomo, ma le induce artificialmente. In altre parole, la tecnologia non è più un mezzo a disposizione dell’individuo per raggiungere determinati fini, ma diventa essa stessa -con la sua sola presenza- in grado di dettare fini e bisogni, in un capovolgimento di prospettiva in cui la tecnica diventa soggetto e l’uomo oggetto.
In questo contesto, dunque, il singolo non domina la tecnica, ma la subisce passivamente, ne viene irrimediabilmente travolto, in quanto non è in grado di analizzarla né di valutarla, rimanendo così all’oscuro delle sue conseguenze antropologiche, delle sue reali finalità e della sua stessa essenza. Inoltre, la tecnologia viene letteralmente imposta dall’alto dalle grandi compagnie multinazionali: circa ogni dieci anni, infatti, si verifica una nuova “ondata” di innovazioni tecnologiche che la massa recepisce e accoglie acriticamente e, spesso, euforicamente, attraverso l’irrazionale corsa all’ultima moda tecnologica.
Ed è esattamente ciò che sta per accadere con l’imminente “avvento” della tecnologia 5G, la tecnologia di quinta generazione che usa le onde millimetriche per trasmettere una quantità enorme di dati ad una velocità di gran lunga superiore a quella del 4G. Rispetto a quest’ultima, la rete non è più fisica, ma virtuale e definita da software estremamente sofisticati. Inoltre, le principali differenze col 4G riguardano il tempo di latenza, ossia l’intervallo che passa tra l’invio di un segnale e la sua ricezione (che dovrebbe essere al di sotto di otto millisecondi e nelle performance migliori dovrebbe avvicinarsi al millisecondo) e la capacità di supportare un numero molto grande di dispositivi senza impattare sulla velocità della connessione.
Ma la vera portata rivoluzionaria del 5G consisterà nella sua capacità di dare vita a quello che è chiamato Internet of Things, IoT (Internet delle Cose) e di supportare e implementare l’intelligenza artificiale (IA). L’insieme di questi elementi provocherà un mutamento antropologico radicale e segnerà il passaggio dall’era dell’umano a quella del post-umano e del transumanesimo, con ripercussioni cruciali sulla definizione stessa di “uomo”.
L’Internet delle cose riguarda la connessione degli oggetti ad Internet, senza l’intervento umano. Gli oggetti si connettono in modo indipendente alla rete e tra di loro, grazie ad un chip o sensore RFID, divenendo così “intelligenti”. L’interconnessione degli oggetti crea una mappa virtuale, nella rete, del mondo reale. In questo modo gli oggetti si scambiano informazioni tra loro, e sono in grado di comunicare il proprio status e i dati sul proprio operato.
Gli ambiti di applicazione dell’IoT sono i più disparati e comprendono, tra gli altri, i settori della domotica, dei trasporti, della logistica, della medicina e dell’agricoltura.
Il “padre” dell’IoT, che ha coniato l’espressione per la prima volta nel 1999, è l’ingegnere inglese e fondatore dell’Auto ID Center presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT), Kevin Ashton. Egli ha definito l’IoT come:
“una rete di sensori wireless e ubiqui che automatizza la raccolta delle informazioni. Si tratta di un’infrastruttura fondamentale, con conseguenze e benefici di portata quasi illimitata. Molti esperti nel XX secolo hanno affermato che “l’informazione vuole essere libera.” Non sono sicuro che l’affermazione sia esatta, ma sono certo di questo: nel XXI secolo, l’informazione vuole essere automatica”.[1]
L’IoT però funzionerà al massimo delle sue potenzialità solo quando tutti gli oggetti saranno dotati dei sensori necessari per connettersi e, soprattutto, quando anche l’uomo sarà in grado di connettersi alla rete, attraverso vari dispositivi come braccialetti elettronici o chip sottocutanei, per comunicare dati e “interagire” egli stesso con gli oggetti. Si parla in questo caso di Internet of Human Things (“Internet delle cose umane”).
Quella del 5G, infatti, non è una semplice tecnologia, ma racchiude in sé una ideologia che punta a fare dell’uomo una cosa tra le cose, un oggetto nelle mani della tecnica, in grado di fondersi totalmente con essa, così da rendere indistinguibile il limite tra l’umano e la macchina. In questo senso, viene modificato il concetto stesso di essere umano, che non è più ontologicamente definito e determinato, ma diventa un “prodotto storico” manipolabile, il risultato di un processo tecnologico che lo rende potenzialmente sempre modificabile: è la tecnica dunque che modella l’uomo e non il contrario, perché essa, grazie al suo immenso sviluppo, è diventata una realtà totalizzante – in grado di dominare ogni ambito della vita – di cui l’uomo moderno non è più in grado di fare a meno. Egli pensa infatti solo in funzione e con i criteri della tecnica, che sono quelli dell’efficienza, della velocità, del calcolo e dell’utilità.
Dunque nel prossimo futuro, saranno gli oggetti a sapere ciò di cui abbiamo bisogno e a provvedere in tal senso al nostro posto: ad esempio, vari dispositivi elettronici potranno rilevare quando una persona si sveglia e mandare un messaggio alla caffettiera mettendola in funzione, gli elettrodomestici si attiveranno da soli quando necessario e la dispensa sarà in grado di ordinare autonomamente via web i prodotti che mancano; le macchine si guideranno da sole e l’agricoltura sarà totalmente automatizzata.
Nel campo della medicina e della salute, molte società di biotecnologia e telemedicina stanno già sperimentando i dispositivi per monitorare in tempo reale, da remoto, le funzioni vitali delle persone: la società sud coreana di elettronica LG, ha sviluppato auricolari che permettono di misurare anche il battito cardiaco, la società di telemedicina israeliana Aerotel Medical Systems fornisce tecnologie per trasmettere istantaneamente da remoto i risultati di un ecocardiogramma a un centro medico; alcune case farmaceutiche stanno sviluppando delle compresse contenenti al loro interno microchip, in grado di stabilire se il paziente ha preso o meno le medicine.
Gli oggetti dunque si sostituiranno all’uomo nella sua capacità di prendere decisioni, grazie alle informazioni che essi sono in grado di ricevere ed elaborare. Ciò implica anche un problema di privacy e di controllo: i dati dei singoli utenti, infatti, saranno gestiti dalle corporazioni che forniranno gli oggetti connessi, le quali saranno in grado di influenzare direttamente i consumi, grazie all’azione dei loro dispostivi. L’IoT è profondamente collegato all’intelligenza artificiale e ai sistemi di megadati (o big data): l’immane massa di dati generata dagli oggetti connessi, che confluisce appunto nei big data, può essere gestita solo da tecnologie e metodi analitici specifici. E in questo l’intelligenza artificiale risulterà indispensabile, non essendo la mente umana in grado di gestire e analizzare una simile mole di dati.
I rischi insiti in questa prospettiva che tende a consegnare alla tecnica la chiave per interpretare e agire sulla realtà sono immensi e rischiano di minare il senso e le basi stesse della vita umana, alienandola di fatto non solo dalla quotidianità, ma dalla sua più intima natura. È intervenuto a riguardo anche lo scienziato britannico -deceduto nel 2018- Stephen Hawking, che in un’intervista alla BBC, aveva messo in guardia da questi pericoli, asserendo che: “Lo sviluppo di una completa intelligenza artificiale potrebbe significare la fine della razza umana”.[2]
La tecnologia spesso “seduce” i consumatori per le sue promesse di comfort e vantaggi di vario tipo, oltre che per il fatto di essere diventata una moda dalla quale dipende l’unica “identità” rimasta ad una società anti-identitaria e globale. Tuttavia, questo è solo l’aspetto patinato della tecnologia; essa andrebbe analizzata più realisticamente e più in profondità dal punto di vista economico, geopolitico, delle trasformazioni socio-antropologiche che comporta e soprattutto andrebbe analizzata per il suo configurarsi come un potenziale strumento di controllo dal potere ineludibile e assoluto. Attraverso un chip o qualunque altro dispositivo a radiofrequenze, sarà possibile monitorare costantemente qualunque essere umano del pianeta, con conseguenze che annulleranno il concetto stesso di libertà e di privacy; potranno essere rilasciate sostanze mediche o vaccini da remoto – imponendo ad esempio trattamenti sanitari obbligatori molto più facilmente di quanto non sia possibile fare oggi – e chiunque venga considerato un “dissidente” potrebbe letteralmente essere “spento”, non potendo più accedere al suo credito o a qualunque altra attività che sarà totalmente automatizzata.
In questo senso, le tecnologie e i big data si configurerebbero come un pervasivo strumento di governo tecnocratico, di cui abbiamo già oggi degli esempi, rappresentati da proposte come quella dell’app “Immuni”, che rispetto alle potenzialità offerte dal 5G e dall’IoT è solo una blanda anticipazione.
Se, da una parte, la tecnologia potrà servire a controllare le masse, in quello che pare si vada sempre più delineando come un impianto globale dominato dal potere tecnocratico e scientista, dall’altra essa servirà a compiere la più grande “evoluzione biologica” della storia, dando vita all’uomo del futuro: una sorta di superuomo, derivante dalla fusione tra uomo e macchina. È il sogno del transumanesimo, il quale si propone di potenziare le capacità fisiche e cognitive degli esseri umani, annullando la malattia e l’invecchiamento e dando vita ad un nuovo “essere”. Questa possibilità però sarà riservata solo ai ricchi, mentre i poveri si estingueranno. Ne è convinto Yuval Noah Harari, storico israeliano e docente all’Università Ebraica di Gerusalemme, il quale in un’intervista al Telegraph ha dichiarato:
“Credo che nei prossimi 200 anni, l’Homo sapiens si evolverà in una sorta di essere divino, e ciò accadrà attraverso la manipolazione biologica o attraverso l’ingegneria genetica, mediante la creazione di cyborg, in parte organici e in parte no. Sarà la più grande evoluzione biologica dalla comparsa della vita. Da un punto di vista biologico, nulla è veramente cambiato da quattro miliardi di anni. Ma saremo diversi dagli esseri umani di oggi, tanto quanto ora gli scimpanzè lo sono da noi”.[3]
Siamo di fronte al tema dell’uomo che non accetta la sua finitezza e i suoi limiti, ma pretende costantemente di oltrepassarli, attraverso ciò che chiama “progresso”. E poiché la tecnica è lo strumento che più di tutti gli consente (apparentemente) di dominare la realtà e di rendersi simile alla divinità, essa è diventata il totem della modernità e ha finito per coincidere con il “bene” stesso dell’umanità. Una volta che l’uomo ha messo al centro se stesso, eliminando il trascendente e ogni forma di sacralità e relativizzando qualunque valore, la tecnica è diventata l’unico modo di concepire e interpretare il reale e in questa dimensione, solo essa sarebbe in grado di soddisfare i bisogni della società, in quanto tutto si svolge su un piano puramente razionale, fisico e biologico. È interamente negata invece la sfera emozionale e sacrale poiché la tecnica è vista come strumento di emancipazione dell’umano dal divino.
Tuttavia, nel suo desiderio di migliorarsi e di auto potenziarsi, l’uomo nega se stesso, giacché nega la sua natura autentica e le sue caratteristiche più precipue, quali appunto l’essere mortale: il delirio di onnipotenza del transumanesimo si riassume infatti nel suo desiderio di raggiungere l’immortalità.
Un tema così decisivo per il futuro stesso dell’umanità – quale quello dell’innovazione tecnologica e delle sue conseguenze – è raramente sottoposto all’attenzione dell’opinione pubblica, tanto che la maggioranza ignora ancora le caratteristiche, i rischi e le modalità con cui la tecnologia 5G stravolgerà gli stili di vita di tutti; e ciò nonostante essa si appresti a diventare predominante. Questo dovrebbe indurre ad una seria riflessione su come in realtà la massa sia un soggetto passivo rispetto al progresso tecnologico, al quale si adatta come a qualcosa di ineludibile e necessario, senza interrogarsi: quello che infatti viene proposto come bene e come miglioramento delle condizioni di vita, è in realtà un’imposizione, sotto il peso della quale si finirà per soccombere.
Se l’umanità vuole porre un freno alla velocità folle con cui si avvia al dominio incontrollato della tecnica e alla sua stessa distruzione – ammesso che ciò sia possibile – deve necessariamente ritrovare la sua essenza, che implica l’accettazione della sua finitezza e del limite e la comprensione che la perfezione della sua natura consiste paradossalmente proprio nell’imperfezione e nella fragilità. Diversamente, rimarremo prima sedotti e poi schiacciati dalla potenza illimitata della tecnologia, che l’umanità si illude solamente di dominare, ma da cui è in realtà dominata.
[1] https://www.techeconomy2030.it/2015/05/07/iot-e-il-futuro-della-societa-interconnessa-intervista-a-kevin-ashton/
[2] https://www.bbc.com/news/technology-30290540
[3] https://www.telegraph.co.uk/culture/hay-festival/11627386/Humans-will-become-God-like-cyborgs-within-200-years.html