In pochi decenni, la Cina ha registrato un’incredibile crescita economica, passando dallo status di Paese in via di sviluppo a superpotenza economica globale. Il “miracolo economico” è stato possibile dapprima grazie alla serie di riforme economiche intraprese sotto Deng Xiaoping – indicata con l’espressione “Socialismo con caratteristiche cinesi” – che ha permesso alla Cina di adottare un’economia mista pubblico-privata e di aprirsi agli investimenti esteri e, successivamente, grazie all’ingresso del Dragone nel 2001 nel WTO (World Trade Organization).
La Cina è stata la nazione che più di tutte ha tratto vantaggio dalle dinamiche della globalizzazione, producendo prodotti a basso costo e divenendo la “fabbrica del mondo”. Nei quindici anni successivi all’ingresso nel WTO, il gigante asiatico ha incrementato in modo esponenziale gli scambi con l’estero, registrando una crescita annua media composta delle esportazioni di oltre il 14% e del 13% per quanto riguarda le importazioni.[1] In pochi anni, ha eguagliato e superato gli Stati Uniti per valore delle esportazioni, divenendo la seconda potenza economica mondiale. Tutto ciò ha avuto importanti ripercussioni sugli equilibri economici e politici internazionali, innescando una spietata guerra commerciale con gli USA, condotta soprattutto dalla presidenza Trump a colpi di dazi e di sanzioni.
Tuttavia, se fino a qualche anno fa la competizione pareva limitarsi all’ambito commerciale, oggi appare sempre più chiaro che il vero terreno di scontro sia quello tecnologico. È in questo ambito che si gioca la vera partita per il controllo geopolitico globale, con la giovane potenza cinese pronta a collocarsi al vertice dello scenario politico internazionale, sfidando gli USA e ponendo fine al “secolo americano”.
In questo contesto, l’evoluzione tecnologica è la condizione indispensabile per dare vita a quella che è stata ribattezzata “quarta rivoluzione industriale” o industria 4.0, caratterizzata dall’estrema automazione del lavoro e i cui pilastri vanno individuati in quella che può essere considerata la “trinità” del capitalismo tecnologico, vale a dire intelligenza artificiale (IA), Internet of Things (IoT) e 5G, tutti strettamente correlati tra loro, poiché si trovano in una relazione di interdipendenza. Avere un vantaggio strategico in questi settori, significa collocarsi al vertice della piramide di potere globale. Non a caso, lo sviluppo tecnologico e dell’intelligenza artificiale è in cima all’agenda del colosso asiatico e si basa su tre strumenti di pianificazione che rappresentano il cuore della strategia cinese in questo ambito: il 13° Piano quinquennale 2016-2020, il piano per le Strategic Emerging Industries e “Made in China 2025”. Quest’ultimo è un documento programmatico che mira a rendere la Cina una delle potenze tecnologiche più avanzate entro il 2025, rendendosi indipendente dalle importazioni estere in alcuni settori strategici: entro il 2025, l’80% di componenti high-tech e di veicoli a energie alternative dovranno essere “made in China”, mentre la produzione interna di robot industriali e di strumenti medici avanzati dovrà passare dal 50% del 2020 al 70%. Questo progetto è da inquadrare in un piano economico più vasto: “La Cina punta a cambiare la propria collocazione nell’economia globale, risalendo le filiere dell’innovazione e posizionandosi come manifattura avanzata e di servizi. Non può essere più chiara la volontà politica di rivendicare un ruolo di (co)leadership nella seconda fase dell’era digitale”.[2] Allo stesso tempo, il progetto è strettamente correlato con quello della “Belt and Road Initiative” o “Nuova Via della Seta”: attraverso la rete di infrastrutture che collega la Cina con Europa, Asia e Africa, è possibile individuare le imprese più tecnologicamente avanzate e rilevarne alcune quote di mercato che possono andare ad alimentare “Made in China 2025”. Tuttavia, l’apertura agli investimenti stranieri non è reciproca, in quanto Pechino “protegge” le sue imprese dalle scalate di capitali esteri, mentre da alcuni studi emerge sempre più chiaramente come sia proprio l’Europa il centro di maggiore interesse per gli investimenti di Pechino.
L’importanza dell’intelligenza artificiale nell’affermazione cinese sullo scacchiere internazionale è confermata dallo stesso Xi Jinping, il quale ne è il principale promotore. Secondo il presidente della Repubblica Popolare infatti: “essere all’avanguardia nelle tecnologie di intelligenza artificiale è determinante per il futuro della competizione globale, militare ed economica”.
La prospettiva “tecnocentrica” e il controllo sociale
Tuttavia, l’importanza attribuita alla componente tecnologica
esula da una mera finalità di conquista della preminenza geopolitica e sconfina
in un campo più propriamente ideologico, in cui la prospettiva
“tecnocentrica” plasma una nuova visione e un nuovo modello socio-antropologico:
non è più l’essere umano a dare senso e significato al reale, ma la tecnica,
che non solo si sostituirà all’uomo in molti processi produttivi e industriali,
ma sarà parte integrante di una realtà che si muove sempre di più verso la
destrutturazione dell’umano. Se, infatti, il mondo si appresta a diventare una
“miniera” di dati e di algoritmi, il rischio è di rimanere vincolati ad una
dimensione in cui solo sofisticate tecnologie sono in grado di estrapolare,
elaborare e dare valore ai dati e in cui tutto viene ridotto e piegato ai
criteri e ai metodi “scientifici”, vale a dire quantità, efficienza, calcolo e
rapidità, relegando componenti essenziali del pensiero, della ricerca e del sentire
umano, quali la metafisica, la spiritualità e l’arte su uno sfondo sempre più
sbiadito e impercepibile, quando non apertamente osteggiato. Questi elementi
sono infatti d’ostacolo per la riduzione dell’individuo a numero e a soggetto
manipolabile e controllabile. Tra i diversi impieghi della tecnologia, infatti,
c’è proprio quello di strumento di controllo delle masse. Non è un
mistero che il modello sociale cinese sia improntato ad un rigido controllo di
tutti gli aspetti della vita dei cittadini, in cui è il Partito Comunista a dettare
i parametri comportamentali. Tutto questo ha dato vita a quello che è stato
definito “Stato di sorveglianza” o anche sistema panottico digitale, un sistema
che serve a controllare tutto ciò che è posto al suo interno, rendendo però invisibile
l’apparato di controllo. Il panottico è un modello che nasce come struttura
architettonica funzionale per il monitoraggio delle carceri, ma che – grazie
alle conquiste tecnologiche – è stato virtualmente trasposto nella vita
quotidiana di milioni di cinesi attraverso la creazione delle cosiddette “smart
city”, letteralmente “città intelligenti” dotate di migliaia di telecamere,
in grado di rilevare i dati biometrici contenuti nei Big data ed elaborati dall’IA.
È
solo grazie a questo complesso meccanismo e alla trasformazione del tutto a
dato numerico e a codice che è stato possibile attuare il sistema dei crediti
sociali, in cui a ciascun cittadino è assegnato un punteggio che gli può
essere decurtato o incrementato in base alla qualità della condotta. Al di
sotto di una certa soglia di punteggio si finisce nella cosiddetta “lista nera”
che implica la preclusione di qualunque attività sociale o lavorativa.
Questo rigido modello di sorveglianza, in base al quale lo Stato possiede e
controlla tutti i dati sensibili dei cittadini – e che rievoca l’occhio del Grande
Fratello orwelliano – trova le sue origini nella cibernetica, la scienza
di controllo dei sistemi fondata nel 1948 dal matematico americano Norbert
Wiener che pubblicò il saggio “Cybernetic”. Essa è più precisamente
la scienza del controllo e dell’informazione, il cui scopo è la conoscenza e
la manipolazione dei sistemi, tra cui rientra a pieno titolo anche quello sociale.
Si deve all’omologo cinese di Wiener – Qian Xuesen – la prima
teorizzazione di modelli di ingegneria sociale che sono confluiti nel
cosiddetto Golden Project, un progetto di totale programmazione della società,
basato sulla raccolta e l’elaborazione di informazioni, oltre che sulla
suddivisione delle aree urbane in griglie per semplificare la raccolta di dati
e il monitoraggio delle aree. Considerato una sorta di eroe nazionale, le sue
ricerche sono contenute nel libro “Engineering Cybernetics” del 1954.
Quello tecnologico sta diventando un vero e proprio elemento identitario per la
potenza cinese, sul quale puntare per consolidare la propria sfera di influenza
internazionale e per porre le basi di un nuovo colonialismo culturale, che
implica il passaggio dalla logica speculativa del capitalismo finanziario a quella
digitale del capitalismo tecnologico. Pechino non sembra voler nascondere,
infatti, la volontà di estendere il proprio modello sociale e culturale oltre i
confini della Cina, facendosi promotrice di un nuovo paradigma di sviluppo
all’insegna del progresso, della cultura digitale e del transumanesimo. Ed è
proprio in questo contesto che va inserita e analizzata la pandemia di
Coronavirus che ha accelerato enormemente questo processo. Nulla più della
pandemia infatti è servito per esaltare a livello mediatico e sullo scenario
politico internazionale il sistema di gestione cinese, sottolineandone gli
aspetti “avanguardistici” costituiti proprio da quella capillare e metodica
raccolta di dati che costituisce il nucleo del controllo sociale cinese. Di
contro, invece, è servita a svalutare e dipingere come catastrofica la condotta
dell’amministrazione Trump, guarda caso a pochi mesi dalle elezioni
presidenziali americane, determinanti per il futuro dell’intera umanità,
proprio perché a ridosso di una trasformazione decisiva ai vertici del potere
globale.
Senza entrare nella spinosa questione dell’origine del virus, è evidente che, in
questo quadro, l’operazione Coronavirus assuma a tutti gli effetti la sua
valenza di strumento geopolitico e di inasprimento del controllo sociale: in un
rovesciamento di prospettiva rispetto alla martellante versione dominante e
consci delle ultime frontiere che il “progresso” si propone di raggiugere, si
può ben affermare che sia stata la pandemia – usata come pretesto per un
accumulo di informazioni e dati sensibili a tappeto – a servire per incrementare lo sviluppo e
l’uso delle nuove tecnologie, piuttosto che non queste ultime a servire come
soluzione di gestione di una emergenza che si caratterizza sempre di più per le
sue ripercussioni politiche e sociali che
non per quelle sanitarie.
A confermare questa chiave di lettura, c’è un documento pubblicato dal
Ministero degli Esteri di Pechino lo scorso aprile, intitolato: “Seguire il
pensiero di Xi Jinping sulla diplomazia per costruire una comunità con un
futuro condiviso per l’umanità, attraverso la cooperazione internazionale
contro il Covid-19”, dove per “futuro
condiviso” è facilmente riconoscibile la volontà di adottare un modello
comunitario globale, che non può che avere come riferimento quello della
Repubblica Popolare Cinese. Questo potere condizionante su scala globale deriva
dall’accresciuta potenza industriale, economica e tecnologica cinese, ma soprattutto
dalla sua “conquista” delle istituzioni sovranazionali.
Il “Nuovo” Ordine Mondiale
All’indomani della Seconda guerra mondiale, sono stati istituiti gli
organismi internazionali per dominare il mondo all’insegna dei nuovi rapporti
di forza tra gli stati e di un nuovo equilibrio economico e finanziario
trainato dall’egemonia del dollaro e dalla potenza strategica e militare degli
USA. Questi organismi intergovernativi sono serviti e servono tuttora per
modellare i sistemi politici, economici e sociali in base a precisi paradigmi dettati
dalla classe dominante apolide finanziaria e, ora, dai grandi colossi
farmaceutici e high tech gestiti dai “filantropi” del capitalismo senza
frontiere. L’ONU, con le sue agenzie governative (tra cui Banca Mondiale e
Organizzazione Mondiale della Sanità),
l’FMI (Fondo monetario internazionale) e il WTO (World Trade Organization) costituiscono
il cuore pulsante dell’ordine mondiale, un apparato economico, militare e
finanziario in grado di destabilizzare gli assetti produttivi, culturali, decisionali
e di controllo di interi continenti (basti pensare al ruolo dell’FMI in
Africa).
La Cina non sembra affatto intenzionata a stravolgere – almeno nella forma – questo
ordine mondiale per istituirne uno nuovo, quanto piuttosto a prendere il
controllo di quello esistente, subentrando agli Stati Uniti nel ruolo
preminente all’interno delle istituzioni internazionali. Mentre, infatti, gli
USA di Donald Trump si stanno sempre più smarcando dall’orbita della comunità
internazionale, la Cina ne sta diventando un membro sempre più attivo e
centrale. A riguardo, particolarmente indicativo è il fatto che ad ottobre 2019,
gli Stati Uniti non avevano ancora versato il contributo al bilancio ordinario
annuale dell’ONU, a differenza della Cina che (in assenza degli Stati Uniti) si
posiziona al primo posto come finanziatore delle Nazioni Unite con 334 milioni
di dollari, seguita da Giappone (239) e Germania (170). Se Washington annuncia
tagli alla quota del suo Paese, Pechino le aumenta in modo esponenziale,
parallelamente al finanziamento delle “missioni di pace” del Palazzo di Vetro, indirizzate
soprattutto al mantenimento dell’ordine in Africa, dove la Cina ha interessi di
portata ragguardevole. A completare questo panorama di progressivo allontanamento
degli USA dagli enti sovranazionali, è stata la scelta drastica di Trump di
sospendere il contributo all’Organizzazione mondiale della Sanità – accusata di
intrattenere rapporti poco trasparenti con il Dragone – mentre la Cina anche in
questo caso ha aumentato il proprio contributo, passando da 8,7 milioni di
dollari nel 2014 a circa 10,4 nel 2019, oltre a profondersi in ulteriori
donazioni “extra” per la lotta contro il Covid 19.
In un’analisi sul New York Times, Vijay Gokhale, ex ministro degli esteri
indiano e ambasciatore in Cina dal gennaio 2016 all’ottobre 2017, ha
sottolineato che la Cina ha ottenuto i maggiori benefici dalla globalizzazione,
sfruttando le istituzioni multilaterali occidentali per “portare avanti i
propri interessi e costruire la propria influenza”.
Secondo Gokhale:
“[…] contrariamente a quanto si crede, la Cina ha sempre detto di non voler rovesciare l’ordine globale. E dovremmo ascoltarla. Perché la Cina dovrebbe ficcarsi nei guai nel tentativo di ribaltarlo, quando può semplicemente prenderne il controllo totale?”[3]
L’Europa e l’Italia nell’orbita di Pechino
Contemporaneamente all’ascesa nelle istituzioni
sovranazionali, la Cina è riuscita ad imporsi nell’ambito della diplomazia europea,
instaurando nuovi rapporti commerciali e di cooperazione su diversi dossier (tra
cui quello sanitario), riuscendo così ad intessere nuovi equilibri strategici,
specialmente dopo la pandemia. La crisi economica e sociale scatenata dalla
chiusura di intere nazioni sembra, infatti, aver colpito maggiormente gli Stati
Uniti a causa del brusco crollo economico iniziale e delle falle sempre più
evidenti nel sistema di ammortizzatori sociali. Ciò ha portato l’amministrazione Trump – costretta
a difendersi dai continui attacchi dei media e del deep state e a fronteggiare
le manifestazioni violente e pilotate dei Black Lives Matters – ad un
sostanziale allontanamento dal suo “protettorato” europeo, per cui la Cina è
potuta subentrare a colmare il “vuoto” americano, estendendo la sua influenza
sul Vecchio Continente e, in particolare, sull’Italia. Tutto ciò è stato possibile
anche a causa della nota avversione di Angela Merkel alle politiche protezionistiche
e anti-globaliste di Trump, considerato che è la diplomazia tedesca a guidare –
de facto – la debole e sottomessa politica estera europea.
La Merkel non ha mai nascosto la sua apertura verso la Cina, dichiarando la
propria disponibilità nella cooperazione internazionale contro il Coronavirus
in sedi internazionali quali l’OMS, le Nazioni Unite e il G20 e, soprattutto,
non ha mai sollevato dubbi sulla gestione cinese della pandemia e sul poco
trasparente ruolo dell’OMS. Questo ha permesso a Berlino di instaurare buone
relazioni commerciali con il Dragone, ottenendo l’impegno ad un trattamento privilegiato
per le imprese tedesche interessate ad investire in Cina.
Lo stesso Xi Jinping ha sottolineato che la Repubblica Popolare apprezza la disponibilità
di Berlino a promuovere attivamente lo sviluppo dei legami Cina-Ue.
Se, dunque, il cuore della diplomazia europea sta spianando la strada al
gigante asiatico, è in Italia che si sta affermando – più che altrove – il
paradigma cinese. L’affermazione del Nuovo Ordine Mondiale passa, infatti,
necessariamente dalla “conquista” dell’Italia che è il cuore pulsante – assieme
alla Grecia – dello spirito e delle radici europee. Conquistare l’Italia – dal
punto di vista culturale e socio-antropologico – significa scardinare secoli di
cultura classica e cristiana, per imporre una visione ad essa antitetica: la
cultura tecnologica e digitale, anticamera della post-umanità e elemento
centrale del Nuovo Ordine Mondiale.
Non a caso, al di fuori delle istituzioni democratiche, durante gli “Stati
Generali”, Giuseppe Conte ha affermato di voler trasformare l’Italia in una “Smart
Nation” (immediato è il richiamo alle smart city cinesi) e di voler puntare
tutto sulla digitalizzazione del Paese. Ciò che però conferma in modo
inequivocabile la volontà di sottomettersi allo schema cinese è il fatto che
l’Italia sia stato il Paese che prima e meglio di tutti ha emulato la gestione
della crisi sanitaria del Dragone, elevandolo a migliore e unico modello di
gestione possibile. E, del resto, l’anima cinese è incarnata nella politica
italiana dai principali promotori della chiusura forzata della Nazione: il M5S,
i cui fondatori – Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio – fin da tempi non
sospetti hanno intrattenuto fitte relazioni con il colosso asiatico e sono
sempre stati fanatici sostenitori delle conquiste tecnologiche e del transumanesimo.
Se questo nuovo paradigma mondiale, caratterizzato dal controllo e dalla
tecnocrazia, si sta affermando sempre di più, dietro al paravento
dell’emergenza sanitaria, è grazie ad un impercepibile e raffinato lavoro di
manipolazione delle masse che, attraverso la cultura liberal dei diritti e uno
strisciante relativismo, ha condotto ad un nichilismo radicale, per il quale non
c’è più nulla per cui combattere se tutti i valori e gli ideali sono stati
annientati. Gli animi sono stati fiaccati dalla società del benessere e da una
pseudo morale improntata all’egualitarismo e al finto umanitarismo. Allo stesso
modo, la globalizzazione ha sostituito i popoli con masse di consumatori
acritici e obbedienti, i quali si riconoscono solo nel materialismo e la cui
identità, non a caso, passa unicamente attraverso l’accumulo e l’arricchimento.
Sono le stesse masse pronte ad essere rinchiuse in casa e sottoposte alla
sorveglianza permanente del Grande Fratello: per questo si può dire che il
liberalismo anglosassone e la società aperta siano state la premessa
indispensabile per l’ascesa della tecnocrazia, incarnata massimamente nella
Cina atea pseudo comunista.
In realtà, tra l’Occidente “progressista” libertario e la tecnocrazia cinese
c’è solo una apparente discontinuità e una falsa contrapposizione. Lavorano
entrambi ad un progetto comune: l’abbattimento del sacro (e del cristianesimo
in prima battuta) e l’affermazione del post-umano, essendo il primo funzionale
al secondo.
Per questo, l’unica via per sottrarsi alla tirannia tecnologica orwelliana è contrapporsi
alla “cultura del progresso” atea, materialista e “scientista” e recuperare due
elementi fondanti della civiltà europea: la fede e la ragione. La prima denigrata
dalla cultura devastatrice post-sessantottina e dal razionalismo totalizzante
di matrice illuminista; la seconda soppressa dal condizionamento mediatico, per
il quale è possibile pensare solo con le categorie di pensiero imposte dal
potere, detentore di una verità indiscutibile.
Solo attraverso una forte presa di coscienza e un recupero profondo delle sue
radici culturali, l’Italia (e il mondo intero) potrà salvarsi dalla distopia che
si sta affermando con sconcertante rapidità.
[1] https://www.corriereasia.com/economia-della-cina
[2] Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Guerra Digitale. Il 5G e lo scontro tra Stati Uniti e Cina per il dominio tecnologico, Luiss University Press, Milano 2019.
[3] https://www.nytimes.com/2020/06/04/opinion/china-america-united-nations.html